Memoria presenteMemoria presente – 2010/2011
Souvenir d’autore Viviamo in un mondo che non ha più segreti né confini. Basta un semplice click per fare migliaia di chilometri in un secondo. Oggi le nuove tecnologie informatiche hanno trasformato il globo terrestre in un’immensa superficie piatta interamente percorribile, sulla quale possiamo muoverci liberamente: scattare, accelerare, compiere rotazioni spericolate, impennate vertiginose. Soltanto qualche anno fa tutto questo sembrava fantascienza e invece oggi grazie all’aiuto di “Street-View”, l’ultimo nato in casa Google, possiamo attraversare strade e città senza muovere un passo. Esattamente così: viaggiare restando fermi, con una fluidità, una disinvoltura e una leggerezza inimmaginabili, scivolando da un posto all’altro, da una via all’altra, in paesi, città, metropoli che non abbiamo mai visitato e che forse non vedremo mai. È vero, siamo nel terzo millennio. L’era digitale è cominciata da un pezzo, ma che cos’è in fondo questo se non un nuovo miracolo fotografico, uno dei tanti a cui l’invenzione di Daguerre ci ha abituati sin dalla sua comparsa nel 1839. Questo non è “Second Life”, non è un videogame e nemmeno un esperimento di realtà virtuale. Si tratta solo di fotografia. Della cara vecchia fotografia. A ben guardare il nuovo navigatore virtuale è fatto da una serie sterminata di scatti fotografici che, abilmente rimontati, riproducono metro per metro il “panorama” visivo, ossia la realtà esterna che si dispiegherebbe davanti ai nostri occhi se fossimo lì, presenti in carne e ossa, a osservarla mentre camminiamo. Le macchine hanno viaggiato al posto nostro e hanno letteralmente duplicato tutto ciò che vedevano. Quasi tutti i percorsi possibili sono stati già mappati o presto lo saranno. Non bisogna far altro che decidersi a partire. Questo modo di abitare lo spazio è senza dubbio sorprendente. Non ci sono più ostacoli né limiti; le distanze si annullano all’istante; il mondo reale si contrae in un’immagine abnorme e in continua inarrestabile crescita. Ma se questo è lo scenario attuale, com’era prima? Dalla seconda metà del secolo XIX ai giorni nostri la macchina fotografica è stata la compagna prediletta dei grandi viaggiatori. Colei che ha permesso di riportare a casa la prova inconfutabile di un’impresa che pochi altri al mondo avrebbero avuto il coraggio, la fortuna o semplicemente l’opportunità di replicare. Fin dai tempi del mitico viaggio di Ulisse i racconti derivati da queste esperienze straordinarie avevano affascinato l’immaginazione del pubblico lettore, ma con l’aggiunta della testimonianza fotografica guadagnavano uno sfondo reale e credibile ben diverso dalla scenografia posticcia e artefatta che era solita orchestrare la finzione letteraria. Grazie alla possibilità tecnica di certificare l’esistenza del mondo l’immagine fotografica offriva a chi le rivolgeva lo sguardo un’emozione nuova: la sensazione di potersi proiettare oltre i confini dello spazio e del tempo; di riuscire a viaggiare con la mente. Ma non c’era più bisogno di sforzarsi con la fantasia: la storia era stata già scritta da qualcun altro, dotato di qualità eccezionali, che non aveva eguali. Il narratore-fotografo ci guidava all’interno dei suoi ricordi, della sua avventura privata e inimitabile in cui i rischio e il pericolo erano già stati dominati, dove la strada era oramai spianata. Il racconto era una specie di regalo che l’autore porgeva al lettore, suo nuovo compagno di viaggio, costruito e confezionato con cura. Il carattere eccezionale, unico e irripetibile, di queste storie erano la vera ragione della loro fortuna. Credo che oggi questa peculiarità vada ricercata e riscattata. Le risorse neo-fotografiche del Web, è certo, ci consentono l’ubiquità istantanea, ma al prezzo di una totale perdita d’identità e di distinzione. Muoversi significa avere le stesse possibilità, gli stessi mezzi, tragitti, orari, mete a disposizione di tutti. Alla fine andiamo ovunque, ma facciamo tutti un unico, identico itinerario. Il viaggio fotografico del passato consegnava al pubblico l’esperienza personale e umana di un singolo. I suoi sentieri, le sue piste battute, le sue vette scalate, le isole scoperte ecc. Le mappe del cammino erano segnate dalle sue impronte. Seguirle non significava soltanto raggiungere un traguardo, ma anche imparare a camminare secondo quel modo particolare di battere la pista. La fotografia calamitava l’attenzione e la passione del pubblico in virtù del racconto di un’esperienza autentica, di una maniera del tutto speciale d’incontrare il mondo. Questo ritorno alla singolarità di un’esperienza personale mi sembra di poterlo intravedere nella narrazione fotografica di Luca Capuano. Tuttavia, va detto, quando parliamo di racconto di viaggio per immagini non intendiamo propriamente il testo scritto. Non c’è infatti alcuna forma di composizione verbale. Non ci sono i nessi sintattici con cui si articolano le parole, né i rapporti logici di causa-effetto su cui si fonda lo sviluppo temporale delle azioni. Purtuttavia le singole immagini, i singoli tasselli di un’ipotetica trama, non funzionano mai da sole. Anzi, al contrario, se staccate dal loro contesto, perdono improvvisamente qualsiasi funzione, valore e significato. Ciascuna di esse è, per così dire, “allacciata” alla filiera che la segue e che la precede, in un rapporto di reciproca dipendenza. Chiaramente tale costruzione frammentaria non frantuma l’identità e la riconoscibilità dell’autore. Il suo stile e le sue intenzioni restano comunque chiari e ben evidenti. Come quando, leggendo a caso una pagina di un libro, riusciamo a indovinare l’autore senza sapere il titolo, anche nella “pagina fotografia” le parole, in senso figurato, conservano una fisionomia e un volto a noi familiari. Se provassimo, ad esempio, a prendere in esame un’inquadratura alla volta, ci accorgeremmo della frequente ripetizione di componenti peculiari: il punto di vista, la scelta del taglio, una disposizione prediletta delle fughe prospettiche, sovrapposizione e incastri di piani per indicare la profondità; formule e strategie visive che sono pure espressioni di un tutto organico e coerente. A volte il fotografo non resiste a se stesso arrivando addirittura ad autocitarsi, come se non ci potesse essere una visione alternativa, un altro modo di rappresentare un determinato spazio. In uno scatto preso all’interno del chiostro di San Lorenzo, se escludiamo la figura seduta sul muretto perimetrale colta di spalle, siamo davanti a un calco letterale di un’altra fotografia eseguita in precedenza nello stesso luogo (si veda Luca Capuano, Il paesaggio descritto, Logos, 2010). Paradossalmente non ci poteva essere migliore garanzia di autenticità. Ma se da una parte l’immagine è in grado di affermare e siglare la specificità di un autore, dall’altro continua ad essere l’interruzione del filo di un discorso più vasto che ha bisogno di essere riannodato e completato. Quindi, il singolo scatto ci fa apprendere l’alfabeto visivo, le regole compositive e la grammatica del linguaggio, ma non il senso generale di un’esperienza. Anche la narrazione fotografica procede per “congiunzioni”, di sicuro molto aperte e flessibili, ma sempre rispettose di un ordine e di una direzione di marcia. Le fotografie di Capuano creano infatti una sequenza: una successione mediante una disposizione studiata e posta alla guida dello spettatore. Se, per fare un esempio, un lettore sfogliasse le pagine contenenti tali immagini senza criterio, violando la progressione numerica, perderebbe drammaticamente la bussola. Infrangere la consecuzione degli istanti degrada la sequenza ad assemblaggio fortuito, scioglie l’omogeneità del progetto. Ma, più di tutto, facendo deragliare la lettura dai binari del racconto, tradisce la volontà dell’autore. Niente, naturalmente, impedisce al lettore-osservatore di essere infedele. L’immagine pubblicata o l’immagine esposta in una galleria sono oggetti consumabili a piacere, secondo il libero desiderio del momento. Tuttavia una lettura responsabile prescrive il rispetto delle regole. Possiamo finire un romanzo di cento pagine a pagina novantasette, oppure iniziare a leggerlo a pagina tre, saltare a pagina trenta e tornare indietro ricominciano dall’inizio, ma, a meno che non sia un prodotto della sperimentazione d’avanguardia, la nostra comprensione ne uscirebbe travolta. Ci sono in sostanza dei confini che non possono essere evitati, pena il sovvertimento dell’intero impianto. Capuano è un produttore d’immagini ma anche e soprattutto un regista. Resto comunque del parere che la metafora del narratore sia abbastanza efficacie. Il fotografo vuole condurci alla scoperta dello spazio “descritto”. Un percorso per essere tale deve avere dei riferimenti. Alcuni per esempio sono introdotti dallo stratagemma della pagina bianca. Non si tratta affatto di un errore, di una falla all’interno del sistema, un deficit di contenuti, piuttosto un segno d’interpunzione dentro il segmento fotografico, dentro il blocco compatto e coeso delle immagini le cui parti sono correlate e vincolate a un contesto. Il passaggio grafico della pagina bianca può coincidere con l’apertura o la chiusura di un “discorso” visivo o con il passaggio in una situazione “narrativa” concatenata alle restanti parti e al tempo stesso adiacente, contigua agli spazi attraversati. Ma se è piuttosto semplice individuare i legami interni fra immagini di uno stesso intervallo, è meno agevole captare, distinguere i rimandi, le fuoriuscite dal contesto parziale e le connessioni con gli altri momenti della sequenza generale. Abbiamo detto che i passaggi, i “movimenti di macchina” sono consecutivi. Non si tratta però di una simulazione cinematografica, cioè di restituire con una tecnica illusoria il movimento naturale, fluido e incessante, senza soluzione di continuità. La fotografia, nonostante i numerosi tentativi, storicamente noti, di rappresentare la durata del moto, resta pur sempre un’immagine statica: misura lo spazio non il tempo, semmai può, come dicevamo all’inizio, contrarlo. Fare la sommatoria delle parti, per quanto infinitesimali possano essere, non equivale a restituire il flusso temporale nella sua interezza. La visione fotografica, bloccando gli istanti del suo decorso, delimita esclusivamente la traccia fisica del tempo, la sua traiettoria. Capuano prende le forme che assume la direzione dello sguardo, le mette in fila, una davanti all’altra, disegna una pista su cui d’ora in poi anche noi possiamo muoverci. La prima micro-sequenza è esemplificativa: le torri medievali sull’angolo in basso a destra, quasi spinte fuori dalla massa folta dell’albero che ha invaso il campo dell’inquadratura, si ricongiungono con la porta aperta verso l’interno del palazzo comunale. È palese l’intenzione di orientare l’attenzione dello spettatore su un asse invisibile tra due punti solo all’apparenza molto distanti e marcare una linea guida che va dall’esterno, il territorio rurale, all’interno, la città-centro storico, di cui le torri sono l’elemento simbolico per eccellenza. Naturalmente sono stazioni intermedie, tappe, che non eseguono una registrazione esatta del movimento nel suo farsi, ma che si limitano giusto a indicarlo. Nella realtà le scene inquadrate sono appunto vicine, prossime, quasi tangenti; si situano a una distanza di pochi metri le une dalle altre. Sul lato destro del cortile una figura femminile osserva il fronte opposto, parandosi gli occhi da un fastidioso riflesso solare. Negli istanti successivi il suo posto viene occupato dal fotografo il cui obiettivo punta un ingresso che conduce al piano superiore del palazzo. La nuova scena ci porta all’interno di una sala decorata da splendidi affreschi. La linea dello sguardo scivola lungo la pista solcata dalle immagini e ci spinge a insistere con l’esplorazione. Le prospettive dipinte corrono veloci compenetrando le sale, superando le mura, e poi, in un baleno, ci ritroviamo fuori a rivedere il palazzo dall’esterno. È ormai tempo di accelerare, non possiamo distrarci troppo a lungo; la campagna esterna si dispiega all’orizzonte, ma il paese e le sue torri ci inseguono come se fossero la nostra ombra. Di solito nei viaggi di Capuano non s’incontra nessuno. Il fotografo e i suoi spettatori sembrano essere gli unici esseri umani presenti. C’è bisogno di silenzio e concentrazione per fissare le cose. Nell’ultima ricognizione fatta su i luoghi monumentali più importanti d’Italia l’autore ha cercato di rimuovere tutti i segni umani e i simboli artificiali della cultura e della società contemporanea. Questa volta, invece, è stato più indulgente con gli abitanti del posto. Ma di sicuro non ha mai pensato ritrarre le loro vite private o di evidenziare i loro caratteri psicologici. Li ha trasformati in maschere, in stereotipi. L’essere umano non può sorprendere; deve lasciarsi addomesticare dal suo habitat: la casa, il bar, il giardino, l’orto, il frutteto, il convento, il campo da calcio; a cui appartiene per abitudine; dove possiamo sempre riconoscerlo e al tempo stesso vederlo scomparire. Privo di una sua fisionomia specifica, di un’identità rilevante l’individuo incontrato diventa quasi l’alter-ego del lettore. Il nostro occhio, guidato dall’obiettivo fotografico, può, ad esempio, coglierlo mentre sta guardano altrove: il suo atto d’osservazione, del tutto naturale e prevedibile, diventa così un’azione cruciale nella costruzione dello spostamento. Funzionando come prolungamento dell’obiettivo, trasporta noi osservatori dentro alla rappresentazione: la direzione del nostro punto di vista coincide con quello della figura fotografata; in un gioco di campi e contro-campi ci ritroviamo a fronteggiare l’orizzonte come se avessimo gli stessi occhi dei cittadini reali. La macchina della visione non solo crea reti di punti con cui penetrare lo spazio reale, cioè vederlo e prenderne parte, ma trova questa dinamica di relazioni inscritte nella realtà stessa. Se ciò può essere esteso alla fotografia in generale, altri elementi riescono invece a spiegare uno stile e un linguaggio più specialistici. Nella narrazione di Capuano ci troviamo di fronte a un allestimento teatrale della vita quotidiana. Le posture dei corpi, i gesti delle mani, le espressioni dei volti sono richiesti dal regista. Tuttavia la gente recita se stessa, e lo fa con grande spontaneità. In un tale equilibrio di naturalezza e di finzione siamo ben lontani dalla tattica abituale del reporter. In quel caso l’obiettivo arriva sempre all’ultimo secondo, nel momento esatto in cui si scontra con l’evento in corso. Si tratta di immagini rubate, carpite “a volo” all’insaputa di chi ne è la vittima. L’idea dell’agguato credo possa interpretare la tensione irrefrenabile del reportage: il mondo scorre rapidamente, allora bisogna inseguirlo, come si suol dire, cogliere l’attimo. Nel lavoro di Capuano, sebbene permanga un acceso interesse per i contesti e per gli attori della scena quotidiana, prevale invece una concezione opposta: non l’assalto, l’improvvisazione, bensì la pausa, la meditazione, l’incontro lungo. Tra fotografo e fotografato si sottoscrive un accordo: il primo chiede il permesso per entrare nello spazio vitale dell’altro (l’interlocutore) e il secondo lo concede, presentandosi come il delegato simbolico di un microcosmo, di una comunità, che sia il bar della partita a carte, che sia l’orto con gli ulivi, l’officina dove l’artigiano lavora il legno o quant’altro. Se non ci fosse questo comportamento discreto e rispettoso da parte del fotografo-estraneo il locale, il custode della città, potrebbe avvertirlo come un’ingerenza, un disturbo, una venuta non gradita cui fare resistenza. In buona sostanza i lunghi tempi di riflessione, preparazione e costruzione, richiesti da un viaggio di esplorazione come questo, sarebbero sconvolti se non ci fosse la partecipazione, la collaborazione della gente, che, contraccambia le esigenze della regia rimanendo al suo posto, disciplinando la sua spontaneità, offrendo cordialmente l’ospitalità. Solo in un caso il patto si rompe: quando Capuano incontra i turisti, gli “stranieri” esattamente come lui. Quei soggetti non appartengono al territorio, non rappresentano la località, sono viaggiatori e solitamente fotografi. Il turista è per sua stessa vocazione distratto e confuso. Soddisfatto solo dalla mania di guardare. Per definire lo spazio in cui si muove Capuano non recinta un percorso visivo particolare. Lo inserisce qua e là, a intermittenza, come se fosse una presenza ingombrante, scomoda, tesa a disturbare la calibrata, armonica precisione della pagina fotografica. In fondo la loro rivalità involontaria, quanto inopportuna, crea più ostacoli che vantaggi. Non servono a marcare né identificare il territorio; sia per ragioni contingenti (se ne andranno presto), sia per ragioni culturali profonde (vengono dal altri luoghi) non costituiscono un corpo integrato nel contesto ma masse sparpagliate; e, a differenza dei locali, vanno ripresi a loro insaputa proprio perché non hanno una collocazione definitiva ma solo occasionale. Sono di fatto tanti “alter ego” del narratore. Non si rivolgono a noi come le altre figure del racconto, ma celano il loro sguardo dietro la macchina, oppure ci voltano le spalle: sono lì per scrivere una loro storia non per raccontarla. Anche essi percorrono una, cento, mille strade e, alla fine, tutti i tempi, i luoghi, le soste e gli spostamenti realizzabili finiscono inevitabilmente per ricongiungersi e confondersi. Appaiono inesorabilmente, e in quell’istante fatale, che si vorrebbe evitare a tutti i costi pur essendo del tutto inevitabile, scattano un ricordo del loro passaggio. Forse il loro viaggio non lascerà nulla di originale, creativo, memorabile, ma, senza dubbio, il nostro non sarà più lo stesso di prima.
Tra memoria e realtà “Guardo dall’alto delle mura della città. La campagna non fa pompa di ville e fattorie. Ce ne sono molte, è vero, ma celate e difese. Le corti, a cui solo il bisogno ha aggiunto nuove costruzioni, sono, non solo nello stile ma in ogni sfumatura dei mattoni e dei vetri, raffinate come non lo è nessuna casa di ricchi perduta nel verde. Ma il muro a cui mi appoggio partecipa del segreto dell’ulivo, la cui chioma, come un serto tenace e poroso, lascia filtrare da mille varchi il cielo.” (Walter Benjamin, San Gimignano, in Immagini di città, Einaudi, 1977/2007). Con queste parole, nel secolo scorso, il raffinato scrittore tedesco, autore di memorabili opere intimiste come Infanzia berlinese, fermava l’impressione d’uno sguardo, ritraendo la poesia e la bellezza metaforica di una città autentica, che sembrava rivaleggiare con l’effimero con la forza del presente e l’immanenza del passato. Ma cosa rimane, oggi, della San Gimignano di Walter Benjamin? Di quel panorama, di quell’armonia di forme, fra storia e vita, fra uomo e natura, che, come in tutta la Toscana, incarna la storia di una civiltà? Quale immagine offre, oltre all’ormai conclamata valenza simbolica del proprio esclusivo profilo urbano? E’ ancora possibile parlare di città, identità ed appartenenza, in un contesto sempre più informato ad una vocazione “museale” e ad una dimensione internazionale? A questi interrogativi risponde, in maniera del tutto personale, il viaggio fotografico di Luca Capuano, che tratteggia un accurato ritratto del centro storico di San Gimignano e del suo tessuto sociale ed insediativo. Il volume documenta la mostra inaugurata in occasione della celebrazione del ventennale dell’iscrizione del centro storico di San Gimignano nella lista del Patrimonio Mondiale UNESCO (6 novembre 2010). Cerimonia nell’ambito della quale l’Amministrazione Comunale ha promosso un importante incontro sul tema della gestione e valorizzazione dei beni culturali, unitamente alla presentazione di un’opera d’arte realizzata nell’ambito di un progetto che lega San Gimignano e Praga, nonché della prima guida del polo museale “Palazzo Comunale, Pinacoteca, Torre Grossa” e del restauro del noto ciclo di affreschi della Camera del Podestà. Iniziativa rivelatasi un’importante occasione per far luce sui mutamenti subiti dalla città negli ultimi vent’anni a causa del progressivo impulso del turismo, ma anche su una rinnovata attenzione, da parte di tutte le istituzioni locali, alle tematiche della tutela e valorizzazione dei propri beni ambientali, architettonici e storico-artistici (culturali?). Basti pensare, a questo proposito, all’apertura del nuovo polo museale dell’ex Conservatorio di Santa Chiara (che ospita le collezioni del Museo Archeologico, della Spezieria di Santa Fina e della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea), al nuovo allestimento della Biblioteca e dell’Archivio Storico Comunale ed alla sistematica campagna di restauri compiuti, fra cui quelli del cortile e della loggia del Palazzo Comunale e della nutrita collezione di dipinti della Pinacoteca. Un’attenzione non disgiunta da una costante apertura alle istanze della contemporaneità, come dimostrano, tra l’altro, le installazioni irradiate nel tessuto urbano da alcuni tra i maggiori esponenti dell’arte contemporanea mondiale (Fabro, Kounellis, Mattiacci, Nunzio, Kosuth, Kapoor), le molteplici esposizioni e pubblicazioni di arte moderna e contemporanea e gli ambiziosi progetti di recupero degli imponenti complessi architettonici dell’ospedale di Santa Fina e dell’ex convento di San Domenico. Questo libro costituisce dunque l’esito artistico finale, a nostro avviso decisamente compiuto, di una specifica “committenza”. Quella appunto di documentare nel suo complesso, senza nessuna pretesa di esaustività ed alcuna preordinata chiave di lettura, la realtà odierna del centro storico di San Gimignano, offrendo un strumento di comprensione dell’identità locale che contribuisca ad accentuare, nei suoi abitanti e nei suoi numerosi visitatori, quel senso di “appartenenza” e di “consapevolezza” che costituiscono elementi imprescindibili per affrontare adeguatamente il tema della conservazione e della fruizione delle città d’arte. Progetto affidato ad un fotografo da tempo impegnato nello studio dei contesti urbani, Luca Capuano (Bologna, 1974), autore di progetti di documentazione dell’architettura storica e contemporanea e di servizi per autorevoli riviste di settore, nonché di varie pubblicazioni, tra cui il recente Il paesaggio descritto. Luoghi italiani patrimonio UNESCO” (Logos, 2010), che offre un’ampia rassegna dei 44 Siti italiani patrimonio dell’umanità. Ne è scaturita una poliedrica monografia di un artista rivelatosi un sensibile interprete della poesia di San Gimignano. Il lavoro è frutto di una sistematica indagine teorica sui soggetti finalizzata al raggiungimento di una metodologia operativa e di un codice visivo che si traducono in una cifra “narrativa”, estranea quindi sia alla frammentazione del linguaggio fotografico sia alla produzione di retoriche immagini iconiche di tipo seriale. Le foto sono il risultato di una rigorosa selezione che ha indotto l’autore a sacrificare gran parte delle pose realizzate nel rispetto di un progetto ispirato all’attinenza al tema specifico della rilevazione, al rigore formale delle singole immagini ed alla coerenza dell’impianto descrittivo generale. Il volume, dal titolo metaforico che richiama una “moderna antichità” di cui San Gimignano s’ammanta, si configura così come una sorta di “racconto per immagini”, nel quale istantanee senza apparenti riferimenti temporali, puntuali e quasi algide nella loro accezione documentaristica di compiuta eleganza formale, affiancano pose gravide di richiami semantici e storico-artistici, o di significati di carattere antropologico inscindibilmente legati alla specificità del paesaggio e dei suoi protagonisti. La scansione del vasto spettro dei nuclei tematici è spesso interrotta da motivi imprevisti o fugaci comparse di precedenti soggetti, nel solco dell’impronta visiva dell’artista che diviene al contempo “regista” della propria opera. Nell’incessante fluire degli scatti, turisti, opere d’arte, interni, scorci, piazze, vedute panoramiche, orti, volti, luoghi della memoria ed altri soggetti si susseguono e si alternano in un articolato itinerario espressivo. Architetture spoglie, spesso deserte, talora baciate da filtri di luce o segnate da isolate presenze quasi spirituali, squarci di campagna, scene di vita quotidiana, volti incisi dal tempo e dal lavoro, sguardi e gesti allegorici, inneggianti ad un ipotetico “altrove”, raccontano ciò che spesso è mascherato dalla commedia della vita e dalla sua frenetica ritualità, la storia di questi luoghi e di questi tempi, e, con essi, la storia di ciascuno di noi. I turisti, ormai parte integrante della fisionomia del centro, sono ripresi in gruppo o senza volto, o dietro al cavalletto della reflex. Come individui che smarriscono un’identità individuale ed acquistano i connotati della soggettività seriale, attratta da una fruizione superficiale della città, che fa da contraltare alla visione “consapevole” dei cittadini ripresi nell’ambito del proprio vissuto quotidiano. Soggetti che divengono pertanto protagonisti dell’inquadratura anche quando sembrano in secondo piano. Piazze, scorci, palazzi, colti talora nelle luci albeggianti del mattino, sembrano per certi versi sospesi nel tempo. Avvolti da una quiete che San Gimignano continua a conoscere solo in alcune stagioni. Chiese in cui è possibile assistere al raccoglimento di un frate o farsi rapire dalla mistica suggestione di un santo svelato dagli affreschi. E nelle quali sembra ancora di potersi imbattere nell’ignoto prete gobbo incontrato da Leonardo Sciascia molti decenni or sono (“San Gimignano. In Sant’Agostino un prete gobbo chiede del mio paese, mi racconta dei comunisti di Toscana. Dietro l’altare, Benozzo apre vivida la favola del Santo. Tremante la mano del prete scende dagli affreschi alti, si ferma impaziente a un volto quieto, gli occhi limpidi – Benozzo Gòzzoli, mi dice. Ora attende l’offerta”, Leonardo Sciascia, La Sicilia, il suo cuore. Favole della dittatura, Adelphi, 1997, p. 21). Porte e finestre aperte che campeggiano in edifici, negli interni o nei cicli di affreschi sembrano evidenziare una possibile via di fuga o una fonte luminosa, che di volta in volta accentuano il lirismo dell’immagine, lasciando spazio all’immaginazione, o riportano la raffigurazione ad una dimensione reale, in un rapporto spazio-tempo che fa da contrappunto all’itinerario espressivo dell’intero volume. Talvolta è la luce a diventare protagonista. Come nelle riproduzioni delle Fonti, di alcune piazze o degli affreschi del Duomo, dove la luce naturale accentua, per la sua apparente interferenza coi soggetti ritratti, il carattere realistico dell’immagine. O nei “notturni”, dove il buio o la penombra dell’alba divengono una sorta di quinta scenica, creando un’atmosfera in cui pare che la città si sveli, che si racconti al silenzio della solitudine. La “verticalità” di una città ultra celebrata per la peculiarità delle sue torri risulta non banalizzata da consuete vedute di edifici statici colti nell’imponenza del loro sviluppo verticale, ma declinata in particolari aerei delle cime immerse nei bianchi del cielo oppure nella congiunzione terrena con le piazze e le strade. La modularità delle piazze medievali e la loro armonia con le vie del centro, un tempo meta di floridi commerci, ospedali e viandanti lungo la via Francigena, costituisce un altro interessante elemento dell’interpretazione di Capuano, capace di cogliere, anche in questo caso, in modo non banale l’essenza della città. Un’essenza che dimora soprattutto nei volti e nelle mani dei suoi abitanti, che la “vivono” e la guardano con gli occhi consapevoli dell’appartenenza. Sguardi vivi ed emblematici, particolari delle mani e dei gesti che non svelano l’identità dei soggetti, non risolvono le situazioni, ma tratteggiano i contesti e diventano tutt’uno con l’ambiente circostante. Sono gli anziani ed i bambini, spesso, ad essere chiamati ad assolvere questo compito di autenticità, di presenza reale di un tessuto sociale anche nel cuore del centro storico, dominato (e talora violato) dall’invadenza del turismo. Un compito a cui contribuiscono altri soggetti tipici della città. Gli orti del centro, caratteristiche testimonianze di un insediamento urbano connotato dalla vocazione rurale del territorio che rischia di scomparire. Piante ormai storiche, come il bagolaro e gli ulivi, ulteriori emblemi d’un armonioso rapporto fra città e campagna. Gli interni di corti e palazzi, vissuti secondo i più tradizionali codici estetici. I locali dei bar, in cui si perpetua quell’ “inaudita facoltà di star seduti al caffè” di cui scriveva Walter Benjamin. L’ex carcere, del quale restano alcuni poster strappati dal tempo, già convento medievale di San Domenico, vero e proprio arco di volta tra passato e presente della città, animato oggi da una dinamica vita associativa. Luoghi di evasione e di cultura, come l’ex cinema (ora galleria privata d’arte contemporanea) ed il Teatro dei Leggieri, nonché i depositi dell’Archivio Storico, della Biblioteca e della Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea, con le loro straordinarie collezione di manoscritti, volumi e dipinti, preziosi scrigni della memoria locale. E’ il ritratto di una città vera, quindi, reale, vissuta, non sospesa sulle ali della propria dimensione simbolica, quello che traspare da questo libro. Una città consapevole della propria bellezza, percepita in ogni visuale ed in ogni luce che ammanta, diversa col succedersi delle stagioni, la cortina verticale della sua unicità. Canoni estetici che Capuano è riuscito a cogliere con assoluto rigore teorico, non disgiunto da una cifra espressiva particolare, declinando l’iconografia, la storia e la società di San Gimignano in un originale ed organico portfolio che trova nell’armonia e nella raffinatezza formale dei contributi i propri tratti distintivi. Quelle di Capuano sono infatti forme sistemate in una composizione rigorosa, sì da farne emergere l’essenza estetica, inserite in un percorso illustrativo informato ad uno spiccato senso per l’armonia compositiva ed all’estrema cura per gli effetti della luce ed i rapporti fra luce e ombra. Immagini di rara bellezza che, almeno per un attimo, sembrano prendersi una rivincita, per quanto vana, nei confronti del dispotico fluire del tempo, acquisendo un significato altamente consolatorio. L’autore dimostra così di essere in grado di confrontarsi con problematiche non particolarmente attuali (forma, armonia, composizione, bellezza), senza tralasciare una rappresentazione della realtà venata da un certo spirito critico, come le immagini sul tema del turismo sembrano dimostrare. Questioni affrontate con passione ed eloquenza, che tradiscono la consapevolezza del ruolo odierno della fotografia, metafora del reale e della nostra cultura, ed il suo valore estetico e civile per riaffermare l’importanza dello sguardo e della nostra identità. |