Così lontano, così vicino – 2008/2009
Così lontano, così vicino.
di Pierfrancesco Frillici
L’occhio afferra, ma non trattiene; coglie, ma non conserva; le apparenze si disperdono, spazzate via dall’onda inarrestabile del tempo. La precarietà del sensibile comporta l’amnesia del visibile. Dunque, guardare fa diventare ciechi.
E, del resto lo sappiamo benissimo, il bulbo oculare riceve dall’esterno continue iniezioni d’immagini, un’overdose letale di informazioni che, sebbene non lascino tracce visibili sul corpo fisico, ci saturano il cervello. Si tratta di un’epidemia narcotica, che in primo luogo colpisce la memoria. E, senza di essa, resta solo l’oblio.
Come curarsi allora? Come guarire dall’ipertrofia del guardare? Per riuscire a vedere più a fondo, per imparare a discernere attraverso i nostri atti sensoriali, bisognerebbe, in un certo senso, “chiudere gli occhi”. Non farsi più distrarre dalla mobilità fugace e rumorosa di ciò che sta per scomparire, ma riflettere, cioè, secondo l’etimologia, “recare l’attenzione”, su ciò che è apparso.
Per questo, serve una terapia fotografica. Soltanto così l’esperienza “oculare” della realtà potrà non esaurirsi, e la percezione instabile dei fenomeni non perdere l’intensità; il tempo potrà assumere una forma immobile e per-durare all’interno dell’immagine.
Attraverso la fotografia si ottiene prima di tutto una visualizzazione, poiché lo spazio esterno va a inserirsi dentro una cornice delimitata; ma soprattutto si produce una separazione, perché, con la chiusura dell’otturatore, ogni contatto con il mondo di fuori va a recidersi: la luce, veicolo di ogni dato percepibile, smette di filtrare, il tempo di trascorrere. L’immagine giace nell’oscurità mantenendosi intatta. Tutti i suoi riflessi successivi, le forme che possiamo vedere emergere sulla carta, non ne alterano la memoria originaria. Ecco che allora la fotografia, metaforicamente, ci fa compiere una mossa paradossale: “abbassare lo sguardo” per poter continuare a vedere, per illuminare la coscienza sulla realtà profonda delle cose. Davanti alla fotografia, per la prima volta, scopriamo, con piena e permanente consapevolezza, la possibilità di conservare il tempo
C’è sempre un doppio movimento nella fotografia: l’azione del “ricevere”, e quella del “dare”. L’obiettivo della macchina si dirige necessariamente verso una meta: punta senza esitazione a prendere contatto con essa; ma anche a fornirle una possibilità ulteriore di manifestazione. In questo incontro di tensioni la parola “luogo” acquista un significato più certo. Ogni situazione in essa compresa, molteplice e variabile quanto lo sono gli individui che vi sono immersi, diventa unica e fondamentale proprio perché è stata fotografata. Grazie a un’adesione integrale allo spazio dell’immagine appare come “incorniciata”, collocandosi in tal modo in una dimensione parallela a quella da cui è scaturita. Nella scena fotografata le categorie concettuali con cui esprimiamo, secondo consuetudine, il nostro modo di comprendere il mondo, risultano assolutamente vincolate al nuovo contesto, che spesso, fra l’altro, non si riduce al singolo scatto, ma va riferito all’intero complesso dei tagli, delle inquadrature, delle prospettive determinanti la “sequenza” degli scatti. È per l’appunto questa disposizione guidata a stabilire l’orientamento della nostra attenzione, a definire la geografia del nostro sguardo.
Una dopo l’altra le immagini procedono; i passaggi si traducono in percorsi e trasformazioni: diventano paesaggi. Perché l’atto del guardare per visualizzare non si scinde mai dall’atto del muoversi alla ricerca di segni di un cambiamento.
In fondo Far from where? è la rappresentazione di un viaggio. Ma, verso dove?Spesso quando ci avviciniamo a un luogo, in gran parte dimenticato perché non frequentato nella vita quotidiana, lo avvertiamo subito come estraneo, come se non potesse appartenere alla nostra esperienza. Avvinti da una sensazione di inospitalità, sentiamo con urgenza l’ansia di tornare a casa. A volte, basta la sola idea di lontananza a inibire la nostra curiosità, a disattivare le nostre capacità di giudizio. La fotografia però sa vincere le contingenze, le impasse emozionali, le incertezze del caso, prolungando i tempi del pensiero, creando fertili attese. Quella di Luca Capuano vuole esercitare tale funzione, saggia e rassicurante, saldando le distanze e annullando le differenze. Tutto allora si ricongiunge, nell’unicità del punto di vista in cui fotografo e spettatore diventano una persona sola. Mondi diversi, creduti lontani, si avvicinano diventando comuni e familiari. La fotografia permette a ognuno di noi di ritrovare quel senso di appartenenza perduto.
Tutte queste immagini presentano degli aspetti che suggeriscono delle direzioni. Invitano chi guarda ad andare avanti, come se ci fosse una soglia da oltrepassare, al di là dei loro limiti visivi. Perché, una volta girato l’angolo, la strada continua; c’è ancora un altro luogo da attraversare. E così, di muro in muro, costeggiamo vari territori rurali, ambienti industriali, fabbriche, cascine, fango e cemento, ma niente alla fine cambia. Camminando adagio dietro le quinte delle inquadrature, scopriamo di essere stati al centro di un labirinto circolare dove ogni punto di svolta può considerarsi fine e al tempo stesso principio, senza un ordine né una gerarchia.
Nel tempo del viaggio, ora più rallentato dalla fotografia, ogni tappa ostenta i segni ripetitivi di una testimonianza: l’uomo e la sua presenza tecnologica nella vita, nella storia e nella natura agiscono incessantemente, senza distinzioni o riserve, sull’identità dei luoghi. L’effetto di questa azione genera il paesaggio, ma, per contraccolpo, anche la sua scomparsa e la sua invisibilità. Per fortuna che la fotografia è ancora lì, sempre pronta a salvarlo.